Sergej Nikolskij, filosofo russo esperto di cultura, sostiene che probabilmente il principale pensiero dei russi, «dalla caduta di Bisanzio ad oggi, è quello dell’Impero e che loro sono una nazione imperiale. Abbiamo sempre saputo di abitare un paese la cui storia è una catena ininterrotta di espansioni territoriali, di conquiste, di annessioni, della loro difesa, di perdite temporanee e di nuove conquiste. L’idea dell’Impero era una delle più preziose nel nostro bagaglio ideologico, ed è questa idea quelle che noi proclamiamo verso le altre nazioni. È grazie a questa che sorprendiamo, affasciniamo o facciamo impazzire il resto del mondo».

La prima e la principale caratteristica dell’Impero russo, rileva Nikolskij, è sempre stata «la massimizzazione dell’espansione territoriale in funzione degli interessi economici e politici come uno dei più importanti principi della politica statale».[1] L’espansione era conseguenza del predominio costante e schiacciante dello sviluppo estensivo della Russia rispetto al suo sviluppo intensivo: il predomino dello sfruttamento assoluto dei produttori diretti rispetto a quello relativo, vale a dire rispetto a quello basato sull’incremento della produttività del lavoro.

«L’Impero russo veniva definito “la prigione dei popoli”. Oggi sappiamo che non era solo lo Stato dei Romanov a meritare questa definizione», scriveva Michail Pokrovskij, importante storico bolscevico. Egli dimostrava come già il Granducato di Mosca (1263-1547) e lo Zarato di Russia (1547-1721) fossero “prigioni dei popoli” e come quegli Stati fossero sorti sui cadaveri degli “inorodcy”, i popoli indigeni non russi. «È discutibile che il fatto che nelle vene dei Grandi-Russi scorra l’80% del loro sangue possa costituire una consolazione per coloro che sono sopravvissuti. Solo il completo annientamento dell’oppressione grande-russa potrebbe costituire una sorta di compensazione di tutte le sue sofferenze per questa forza che ha lottato e continua a lottare contro qualsiasi oppressione».[2] Queste frasi di Pokrovskij sono state pubblicate nel 1933, subito dopo la sua morte e poco prima che, su richiesta di Stalin, nella storica formulazione dei bolscevichi “la Russia- prigione dei popoli”, il primo termine venisse sostituito da un altro: “lo zarismo”. Successivamente, il regime staliniano ha stigmatizzato il lavoro scientifico di Pokrovskij come «concezione antimarxista» della storia della Russia.[3]

Imperialismo militar-feudale

Per secoli, fino al crollo dell’Urss nel 1991, le popolazioni conquistate ed annesse dalla Russia hanno subito tre successive forme di dominazione imperialista russa. «L’imperialismo militar-feudale» fu la prima, richiamata dallo stesso Lenin. Non è inutile discutere quale modo di sfruttamento vi predominasse: quello feudale o tributario, oppure ancora, come preferisce Jurij Semenov, “politario”.[4] Questo dibattito è reso attuale dalle più recenti ricerche di Alexander Etkind, da cui risulta come, all’epoca, a dominare fossero modi di sfruttamento coloniale: «sia entro i suoi confini remoti sia nella più cupa profondità, l’Impero russo era un immenso sistema coloniale»; «un Impero coloniale come la Gran-Bretagna o l’Austria, ma al tempo stesso un territorio colonizzato, come il Congo o le Indie occidentali». L’interessante è che «la Russia, espandendosi ed assorbendo vastissimi spazi, colonizzava il proprio popolo. Si trattava di un processo di colonizzazione interna, una colonizzazione secondaria del proprio territorio».

Per questo motivo, spiega Etkind, bisogna «concepire l’imperialismo russo non solo come un processo esterno, ma anche come processo interno».[5] Il rapporto servile – generalizzato per legge nel 1649 – vi assumeva un carattere coloniale, come la schiavitù dei Neri in America settentrionale, ma riguardava i contadini grandi-russi come altri considerati “russi” dallo zarismo: i contadini “piccolo-russi” (ucraini ) e bielorussi. Etkind richiama l’attenzione sul fatto che, nella stessa Grande-Russia, le insurrezioni contadine avevano un carattere anticoloniale e le guerre con cui l’Impero schiacciava quelle rivolte erano guerre coloniali. Paradossalmente, il centro imperiale della Russia era al tempo stesso una periferia coloniale interna, entro la quale lo sfruttamento e l’oppressione delle masse popolari erano più severi che non in tante periferie coloniali conquistate ed annesse.

Quando è comparso «il moderno imperialismo capitalistico», Lenin scriveva che era «avviluppato, per così dire, in una rete molto stretta di rapporti precapitalistici», così stretta che «quel che, in generale, predominava in Russia era l’imperialismo militar-feudale». Per questa ragione, scriveva, «in Russia il monopolio della forza militare, di un immenso territorio, o di condizioni particolarmente favorevoli per il saccheggio di popoli indigeni non-russi, la Cina ecc., completa in parte e in parte sostituisce il monopolio del moderno capitale finanziario».[6] Al tempo stesso, in quanto imperialismo della meno sviluppata delle sei maggiori potenze, era soltanto un sub-imperialismo. Come rilevava Trockij, «la Russia pagava così il diritto di essere alleata dei paesi avanzati, di importare capitali e versarne gli interessi, vale a dire, insomma, il diritto di essere una colonia privilegiata dei suoi alleati; ma, al tempo steso, acquisiva il diritto di opprimere e di spogliare la Turchia, la Persia, la Galizia e, in generale, paesi più deboli, più arretrati di lei. L’equivoco imperialismo della borghesia russa aveva, in fondo, i tratti di un’agenzia al servizio delle maggiori potenze mondiali».[7]

Niente decolonizzazione senza separazione

Sono appunto i potenti monopoli extra-economici menzionati da Lenin ad aver garantito all’imperialismo russo la continuità dopo il rovesciamento del capitalismo in Russia grazie alla Rivoluzione d’Ottobre. Contrariamente ai precedenti annunci di Lenin che la norma della rivoluzione socialista sarebbe stata l’indipendenza delle colonie, soltanto quelle non raggiunte dalla Rivoluzione russa, o che l’avevano rifiutata, si sono separate dalla Russia. In numerose regioni periferiche, l’estensione della Rivoluzione aveva il carattere di “rivoluzione coloniale”, guidata dai coloni e dai soldati russi senza la partecipazione dei popoli oppressi, o addirittura con il mantenimento dei rapporti coloniali esistenti. Georgij Safarov ha descritto questo andamento della rivoluzione in Turkestan.[8]  Altrove, essa presentava la natura di conquista militare, e alcuni bolscevichi (Michail Tuchačevskij) hanno elaborato ben presto una teoria militarista della «rivoluzione portata dall’esterno».[9]

La storia della Russia sovietica ha smentito il pensiero dei bolscevichi secondo cui, con il rovesciamento dei capitalismo, i rapporti di dominazione coloniale di certi popoli su altri sarebbero scomparsi e che, quindi, questi popoli avrebbero potuto, e anche dovuto, rimanere nel quadro di un unico Stato. «L’economicismo imperialista», che negava il diritto dei popoli a disporre di se stessi e che (criticato da Lenin) si diffondeva tra i bolscevichi russi, ne costituì un’espressione estrema. In realtà, è tutto il contrario: la separazione statuale di un popolo oppresso è la precondizione della distruzione dei rapporti coloniali, anche se non la garantisce. Vasyl Šachraj, militante bolscevico della rivoluzione ucraina, lo aveva capito già dal 1918 e aveva polemizzato apertamente con Lenin su questa questione.[10] Tanti altri comunisti non russi lo hanno capito all’epoca, in particolare il dirigente della rivoluzione tatara Mirsaid Sultan Galijev. È stato il primo comunista estromesso dalla vita politica pubblica su richiesta di Stalin, fin dal 1923.

In realtà, l’imperialismo basato sui monopoli extra-economici richiamati da Lenin si riproduce, spontaneamente e senza essere avvertito, in molteplici forme, anche quando perde le sue basi specificamente capitalistiche. Per questo, come dimostrava Trockij negli anni 1920, Stalin «è diventato il portatore dell’oppressione nazionale grande-russa» ed ha rapidamente «garantito il predominio dell’imperialismo burocratico grande-russo».[11] Con l’instaurazione del regime staliniano, si è assistito alla restaurazione della dominazione imperialista della Russia su tutti quei popoli, già conquistati e colonizzati, che sono rimasti entro i confini dell’Urss dove costituivano la metà della popolazione, come pure sui nuovi protettorati: Mongolia e Tuva.

Ascesa dell’imperialismo burocratico

Questa restaurazione era affiancata da una violenza poliziesca micidiale e addirittura genocida – dallo sterminio per fame noto in Ucraina come il Holodomor e in Kazakhstan come il Žasandy Ašaršylyk (1932-1933). I quadri bolscevichi e l’intellighenzia nazionali furono sterminati e si avviò un’intensiva russificazione. Interi piccoli popoli e minoranze nazionali sono stati deportati (la prima grande deportazione ha investito nel 1937 i coreani che vivevano nell’Estremo Oriente sovietico). Il colonialismo interno si è ulteriormente diffuso e «l’esempio più spaventoso di simili pratiche fu lo sfruttamento dei prigionieri del Gulag, descrivibile come forma estrema della colonizzazione interna».[12] Come sotto lo zarismo, l’immigrazione della popolazione russa e russofona verso le periferie placava le tensioni e le crisi economico-sociali in Russia, garantendo al contempo la russificazione delle repubbliche periferiche. Sovrappopolata, depauperata e affamata in seguito alla collettivizzazione forzata, la campagna russa esportava massicciamente forza lavoro verso i nuovi centri industriali alla periferia dell’Urss. Al tempo stesso, le autorità vietavano la migrazione della popolazione locale – non russa – delle campagne verso le città.

La divisione coloniale del lavoro deformava, quando non impediva, lo sviluppo, a volte trasformando le repubbliche e le regioni periferiche in fonti di materie prime e in zone di monocoltura. Questo andava insieme alla divisione coloniale fra città e campagna, lavoro fisico e lavoro intellettuale, qualificato e non, bene o mal retribuito, nonché alla stratificazione, anch’essa coloniale, della burocrazia statale, della classe operaia e di società intere. Divisioni e stratificazioni garantivano agli elementi etnicamente russi e russificati posizioni di privilegio rispetto all’accesso ai redditi, alle qualifiche, al prestigio e al potere nelle repubbliche periferiche. Il riconoscimento dell’essere etnicamente o linguisticamente “russi” [della “russità”] in forma di «salario pubblico o psicologico» (un concetto che David Roediger ha ripreso da W.E. B. Du Bois e applicato nei suoi studi sul proletariato bianco americano)[13] è diventato un importante strumento della dominazione imperialista russa e della costruzione di una “russità” imperialista all’interno stesso della classe operaia sovietica.

Nel corso della Seconda Guerra mondiale, la partecipazione della burocrazia staliniana alla lotta per una nuova spartizione del mondo era la proiezione della politica interna imperialista. Durante la guerra e alla fine di questa, l’Unione sovietica ha recuperato gran parte di quel che la Russia aveva perso dopo la rivoluzione, conquistando anche altri territori. La sua superficie si è estesa di oltre 1,2 milioni di km2. Dopo la guerra, la superficie dell’Urss superava di 700.000 km2 quella dell’Impero zarista al termine della sua esistenza, ed era più piccola di 1,3 milioni di km2 rispetto alla superficie di quell’Impero all’apice della sua espansione (nel 1886, subito dopo la conquista del Turkestan e poco prima della vendita dell’Alaska).

In lotta per una nuova spartizione del mondo

In Europa, l’Unione Sovietica ha incorporato le regioni occidentali della Bielorussia e dell’Ucraina, l’Ucraina subcarpatica, la Bessarabia, la Lituania, l’Estonia, una parte della Prussia orientale e della Finlandia e, in Asia, il Tuva e le Kurili meridionali. Il suo controllo si è esteso su tutta l’Europa orientale. L’Urss ha richiesto che la Libia fosse sottoposta alla sua tutela. Ha cercato di imporre il proprio protettorato sulle grandi province cinesi confinanti: il Xinjiang e la Manciuria. Per giunta, voleva annettere l’Iran settentrionale e la Turchia orientale, sfruttando allo scopo l’aspirazione alla liberazione e all’unificazione di molte popolazioni locali. Stando allo storico azerbaigiano Džamil Hasanly, è in Asia e non in Europa che è cominciata la “guerra fredda”, fin dal 1945.[14]

«Appena le condizioni politiche lo consentono, la natura parassitaria della burocrazia si manifesta nel saccheggio imperialista», scriveva all’epoca Jan van Heijenoort, ex segretario di Trockij e futuro storico della logica matematica. «La comparsa di elementi dell’imperialismo implica forse la revisione della teoria secondo cui l’Urss è uno Stato operaio degenerato? Non necessariamente. La burocrazia sovietica si nutre in genere dell’appropriazione di lavoro altrui, cosa che da tempo noi abbiamo ritenuto inerente alla degenerazione dello Stato operaio. L’imperialismo burocratico non è che una forma di questa appropriazione.[15]

I comunisti jugoslavi hanno acquisito ben presto la convinzione che Mosca «volesse sottomettere completamente a sé l’economia jugoslava e farne una semplice appendice che fornisse le materie prime all’economia dell’Urss, cosa che avrebbe frenato l’industrializzazione e sconvolto lo sviluppo socialista del paese.[16] Le “società miste” sovietico-jugoslave dovevano monopolizzare lo sfruttamento delle ricchezze naturali della Jugoslavia che servivano all’industria sovietica. Lo scambio commerciale ineguale tra i due paesi doveva garantire all’economia sovietica sovraprofitti ai danni di quella jugoslava.

Dopo la rottura della Jugoslavia con Stalin, Josip Broz Tito disse che, a partire dal Patto Ribbentrop-Molotov (1939) e soprattutto dopo la Conferenza dei “Tre Grandi” a Teheran (1943), l’Urss partecipa alla divisione imperialista del mondo e «prosegue consapevolmente per la vecchia strada zarista di espansionismo imperialista». Diceva anche che la «teoria del popolo dirigente in seno a uno Stato multinazionale» proclamata da Stalin «altro non è che la manifestazione del dato di fatto della sottomissione, dell’oppressione nazionale e del saccheggio economico degli altri popoli e paesi da parte del popolo dirigente».[17] Nel 1958, Mao Zedong ironizzava discutendo con Chruščev: «C’era un certo Stalin che ha preso Port Arthur, ha trasformato il Xinjiang e la Manciuria in semicolonie e ha formato quattro società miste. Erano queste le sue buone azioni».[18]