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<aside> <img src="https://api.iconify.design/ph:chat-circle-text-bold.svg" alt="https://api.iconify.design/ph:chat-circle-text-bold.svg" width="40px" /> Allocuzione del prof. Pier Paolo Boldon Zanetti, docente presso il Liceo delle Scienze Umane “Contessa Tornielli Bellini” di Novara, tenuto durante la conferenza stampa di presentazione dell’Associazione sabato 18 novembre 2017, ore 11:00, presso il teatro Faraggiana di Novara.

Leggi il testo della Conferenza stampa:

Trascrizione del 18/11/2017

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Ringrazio il Presidente, che mi ha invitato, ringrazio l’associazione che si accinge ad un compito certo non facile, coraggioso e prezioso, per la finalità che si propone. Ringrazio i presenti.

Penso che questo invito, che questa nostra presenza, insieme (io ormai anziano e voi giovani), intorno allo stesso tavolo, sia già di per sé eloquente e sintetizzi meglio delle mie parole quanto vorrei comunicarvi col mio breve intervento. Alessandro ed io frequentiamo la stessa scuola (in vesti diverse) e la scuola, per me, è non solo il luogo dell’apprendimento di conoscenze ma anche il luogo dell’incontro con le persone, del confronto, il luogo in cui si condivide, per un certo tratto, quel viaggio affascinante, meraviglioso, ma a volte drammatico e sconvolgente, che è la vita.

L’Associazione, come è stato detto, è sorta con l’intento di informare sulla realtà del suicidio e di portare aiuto, ai giovani in particolare.

Il suicidio – scrive Eugenio Borgna – è una straziante esperienza di vita e di morte che non nasce solo nelle aree sconfinate delle esperienze psicopatologiche, ma anche nelle aree frastagliate di ogni quotidiana forma di vita […], ogni suicidio è immerso nelle acque insondabili del mistero. […] Ciascuna età della vita è contrassegnata da luci e da ombre, da speranze e da disillusioni, da progetti e da crisi esistenziali; ma nella adolescenza, nel passaggio difficile e frastagliato dalla infanzia alla adolescenza queste luci e queste ombre, queste speranze e queste disillusioni, si fanno intense e laceranti” (Borgna pp. 96, 97)

Per questo è necessario che chi vive con i giovani sappia mettersi in ascolto, delle loro emozioni, delle loro attese, delle loro angosce, cogliendo i segni, a volte più marcati ma altre volte molto lievi e accennati, di una sofferenza profonda, propria di chi non vede più un senso nel suo vivere. E sappia trovare parole “che aiutano a creare relazioni interpersonali nutrite di attesa e di speranza”.

Purtroppo la società contemporanea, per molti aspetti va in un’altra direzione.

La società, in cui vivono gli adulti, – scrive ancora Borgna – sta rapidamente trasformandosi in una società autistica, che fa smarrire il senso della solidarietà umana, e la nostalgia di una comunità di destino, e che spegne in noi gli orizzonti della speranza e della condivisione, della comunicazione autentica e della disponibilità ad ascoltare il grido silenzioso delle anime ferite”.

È una società che non conosce un “altrove”, che all’immagine del pellegrino, che è in cammino verso una meta, ha sostituito quella del “turista”, che non è in cammino in senso proprio, che vive l’immediatezza del qui e dell’ora (cfr. Byung – Chul Han p. 46). Ma se non c’è futuro, se non c’è attesa, non c’è speranza. E’ una società segnata per molti aspetti dal nichilismo, che penetra anche nei giovani come “ospite inquietante” (espressione di Nietzsche ripresa da U. Galimberti, 2007. )

Ho trovato molto interessante l’analisi condotta da Olivier Roy, docente presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, sulla “generazione Isis” (come suona il titolo di un suo libro), che collega il fenomeno dei giovani cresciuti in Occidente che si affiliano all’Isis non tanto all’islamismo quanto al nichilismo che pervade la nostra società. Sono giovani per i quali la morte sta al centro del progetto di vita, la morte degli altri, ma anche della propria, come accade alla maggioranza di loro che muoiono in un attacco kamikaze o che si fanno uccidere dalle forze dell’ordine (Roy p. 84), simili ad altri assassini di massa – suicidi, ben presenti nella contemporaneità.

Affronto ora un altro tema, ma non privo di connessioni con quanto ho detto finora. Gustavo Pietropolli Charmet, uno dei maggiori esperti italiani della psicologia dell’adolescenza intitolava così un suo libro del 2008: “Fragile e spavaldo”, sintetizzando con queste parole il suo ritratto dell’adolescente d’oggi. Il libro è del 2008, ma i contenuti mi paiono ancora pienamente attuali. I ragazzi, le ragazze di oggi, questa è la sua analisi, a differenza di quelli della mia generazione, non devono fare i conti con i sensi di colpa conseguenti ad un’educazione centrata sul rispetto delle regole, proprie di una “famiglia etica”, sono spavaldi, “Narcisi” cresciuti in una “famiglia affettiva”, che li ha considerati dei piccoli messia, destinati a grandi cose. Devono essere belli e prestanti, simpatici e comunicativi, famosi e autonomi, creativi ed espressivi. Spavaldi eppure fragili. Tesi continuamente alla ricerca del successo, in caso di fallimento, reale o fantasticato, crollano sotto il peso della vergogna.

Se Narciso non riesce ad essere all’altezza delle proprie ideali aspettative, che perciò è corretto definire narcisistiche, si mette molto male per lui. Perché la mortificazione che ne deriva, e l’inevitabile collezione di umiliazioni, rendono la sua vita un calvario. […] Mentre la colpa si cancella abbastanza facilmente, basta ripararla, chiedere scusa e accettare il castigo, la vergogna è pervasiva, penetra in tutti gli interstizi della mente, non si dimentica mai. E produce una ferita che continua a bruciare…

Allora forse una delle priorità educative è oggi quella di aiutare i giovani ad accogliersi, anche nella loro debolezza, a distinguere tra il valore della persona e quello delle sue prestazioni. E’ necessario aiutarli a sopportare le frustrazioni, a riprendere con pazienza il cammino, a guardare le proprie potenzialità e i propri limiti con realismo e fiducia al tempo stesso.

A questo proposito desidero ricordare la testimonianza che ho trovato in un giornale locale del torinese. E’ di una donna, Simona, una professionista, che ripensando ai suoi vissuti nel tempo dell’adolescenza, così scrive:

Chi di noi non ricorda il primo brutale impatto col senso di inadeguatezza, la prima difficilissima forma di convivenza con il proprio insuccesso? Chi di noi non ha mai provato quanto sia devastante l’esperienza del fallimento, quanto il senso di mortificazione rimanga intatto nel tempo. Al punto che basta rievocare l’episodio che l’ha provocato per riviverlo con la stessa intensità? Occorre imparare a perdonare e a perdonarsi, ma è più facile quando qualcuno ce lo insegna. […] Tutta la nostra esperienza è ricca di incontri, apparizioni sporadiche o presenze costanti, persone entrate nella nostra vita per restarci e altre che, per qualche misteriosa ragione non siamo riusciti a trattenere. Ma ci sono incontri che lasciano un segno più profondo perché avvengono in un’età in cui è fondamentale sapere di essere amabili anche nel fallimento. Eppure un ragazzo spesso non lo sa, ha bisogno che gli venga spiegato, ripetuto, dimostrato. Allora, veramente, il corso della sua vita può cambiare grazie all’incontro con una persona speciale che gli insegni la bellezza di ciò che è umano ed imperfetto, la grandiosità dell’amore, che trascende le logiche del merito, che gli ripeta senza stancarsi che ciò che lui è, è molto più dei risultati che ottiene.

Simona riferisce di aver trovato in un insegnante chi l’ha aiutata a non perdersi e a comprendersi come essere umano irripetibile, amabile anche nella propria fragilità.

Penso che la scuola, per quanto ho già detto anche all’inizio, possa svolgere un ruolo importantissimo nell’aiutare i giovani nei loro momenti di smarrimento e, prima ancora, nell’educarli ad affrontare le difficoltà. Ma è necessario che la scuola coltivi lo spirito di una comunità, di cui ognuno, nella diversità di ruolo, si sente responsabile e partecipe. Uno spirito che, a dire il vero, mi sembra non sia favorito dall’attuale indirizzo della cosiddetta “buona scuola”, segnata da un’”illusione aziendalistica” (Baldacci p. 22) e dalla tendenza alla contrazione del tema educativo in quello più propriamente istruttivo (Ferrari p.72). Il fine resta - deve restare – l’educazione della persona, nella sua integralità, e questa e non si può attuare se non nell’incontro tra persone.

Fiducia, fiducia nel mondo, poiché esiste questa persona - ecco l’opera più intima della relazione educativa. Poiché questa persona esiste, l’assurdo non può essere la vera verità, per quanto ci possa angustiare. Poiché questa persona esiste, certamente nell’oscurità è nascosta la luce, nello spavento la salvezza e nell’ottusità del prossimo che ci circonda il grande amore. Poiché esiste questa persona. E quindi questa persona deve veramente esistere” (Buber).

Le parole di Buber sono pensate per l’educatore, genitore o insegnante che sia, ma a mio avviso si addicono bene anche a Voi, dell’Associazione, che volete dire ai vostri coetanei “sono qui, non temere! La tua storia è unica e merita di essere vissuta”.

Grazie.